“A Chilometro Zero”: ma quanti sono effettivamente?

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Recentemente ho avuto la necessità di cambiare l’automobile e dal concessionario, seppure con un allestimento differente da quello che avrei voluto, il venditore mi ha proposto alcune vetture disponibili a “chilometro zero”.

Passando a fare la spesa al mercato, dei vari prodotti contenuti nella lista preparata da mia moglie, l’ortolano mi ha consigliato dei fagioli freschi e il salumiere del formaggio pecorino stagionato: entrambi a “chilometro zero”.
Per ogni prodotto, che si tratti di un ortaggio o di un vino, di una maglia o di un comodino, si può acquistare scegliendo quelli così detti “a chilometro zero”.

Ormai pare che, il chilometro zero, addirittura, come un brand rilevante, sia diventato il principale parametro in grado di conferire valore aggiunto ad un prodotto e ne favorisca l’apprezzamento sul mercato. Sembra che se non si consumano merci o manufatti selezionati in base a questa caratteristica, il nostro comportamento corrisponda ad uno stile di vita antiquato e inadeguato; per alcuni perfino eticamente e socialmente discutibile.

Allora considerata l’importanza della locuzione “Km 0” e l’impatto provocato in molti settori merceologici, non è più consentito scansare la riflessione su come questa possa essere adeguata tanto per un’automobile che per una zucchina, una pagnotta di pane, un tessuto o un qualsiasi oggetto prodotto o coltivato o anche semplicemente raccolto. Connotato che fa presumere qualità della merce in vendita: abilitatore di appetibilità commerciale.

Affermando con sicurezza che non tutti i clienti possono essere i vicini di chi produce un bene, come imporrebbe alla lettera la definizione di una distanza uguale a 0 chilometri, ed è ragionevole immaginare che il significato abbia piuttosto a che fare con il breve tragitto tra il luogo di consumo e quello di produzione, emerge il rischio concreto che la definizione Km 0 possa essere usata assai impropriamente in molti e frequenti casi.

E’ infatti possibile che possa essere così elastica tanto da estendersi a tutto ciò che troviamo in vendita? Analogamente tanto che si tratti di un’automobile che di una caciotta di formaggio?

Probabilmente no.

Ma allora quali sono gli altri vincoli, oltre la distanza, anche questa peraltro tutta da stabilire, che devono essere tenuti in considerazione perché un prodotto possa essere definito “a chilometro zero”?

La distanza dal luogo di produzione da quello di vendita/utilizzo/consumo, elemento qualificante apparentemente principale, può essere standardizzata a prescindere dalle varie tipologie di prodotto?

Evidentemente no.

Divertente per comprendere la questione, è prendere ad esempio in esame due prodotti molto diversi tra loro ma entrambi congruamente definibili a chilometro zero.
Nel primo caso, un cesto di insalata a chilometro zero, sarebbe spontaneo immaginarlo come un prodotto fresco, appena raccolto nell’orto del contadino e magari, visto che doveva fare poca strada per essere venduto, nemmeno sottoposto a trattamenti di lunga conservazione. Probabilmente anche dal prezzo competitivo ed equo (per il consumatore e per il produttore) se paragonato a quello collocato sul banco dell’ipermercato dalla GDO concorrente. Stiamo evidentemente parlando di un prodotto dal livello qualitativo elevato sotto ogni profilo. Adesso, a riprova dell’inadeguatezza della definizione fin qui conosciuta, valutiamo con criteri analoghi a quelli utilizzati per l’ortaggio, un veicolo industriale ipertecnologico e sofisticato. Allora immaginiamoci di avere a che fare con una macchina prodotta nell’officina del meccanico all’angolo della strada, appena finita di assemblare in maniera artigianale con le chiavi inglesi invece che con un robot e addirittura verniciata …artisticamente a mano con il pennello anziché in un carosello computerizzato di verniciatura. Il prezzo da pagare, derivante inevitabilmente da criteri applicabili a pezzi unici o serie limitatissime, sarebbe senza dubbio esorbitante e i livelli qualitativi del prodotto, paragonato ad un altro simile sempre uscito dalla stessa officina, sarebbero di sicuro molto diversi, comunque da valutare singolarmente per ogni esemplare.

La sintesi che ne deriva è che non è possibile utilizzare parametri standardizzati per definire la qualità di due prodotti molto diversi ma entrambi a chilometro zero e che quindi c’è il rischio che venga fatta molta confusione.

Per questa implicazione, ancorché sia possibile usare “Km 0” in così tanti settori, la locuzione può assumere significati diversi in dipendenza della tipologia del prodotto, delle modalità di approvvigionamento, del marketing e perfino delle aspettative dell’utente finale.

Ma c’è dell’altro da riflettere e in particolare sul fatto che un prodotto a chilometro zero esprima qualità, prima di tutto, perché ha geolocalizzato il luogo di produzione quanto più prossimo a quello in cui si trova il proprio consumatore/utente.

Se questo fosse vero, un abitante di Siena, che non è sul mare, non ha neppure un lago riportato sulla carta geografica e non è attraversata da un grande fiume, che desiderasse ad esempio mangiare del pesce autoctono appena pescato dal pescatore nel suo habitat naturale, con tecniche artigianali e rispettose dell’ambiente, cioè quanto di più definibile, oggi, a chilometro zero, come farebbe? Non potrebbe, evidentemente. Il Senese sarebbe costretto a nutrirsi a sfinimento di “Cinta senese” e forse di qualche lombata di Chianina, ma non potrebbe mai gustare il sospirato pesce.

Seguendo un ragionamento simile, allora, rispetto al chilometro zero, non avrebbero alcun senso nemmeno le definizioni DOP, IGP, DOCG, … finanche Made in Italy, faticosamente disciplinate e controllate, con cui si cerca di tutelare la qualità e la reputazione di un prodotto in tutti i mercati; soprattutto internazionali, ovvero anche molto distanti.

La questione non riguarda esclusivamente i prodotti agroalimentari ed è estendibile oltre visto che ormai, come già detto, a Km 0 si individuano una serie smisurata di merci e manufatti anche senza che ne siano ben chiari i parametri. Ormai, infatti, da quando proviene da fonti rinnovabili, anche l’energia elettrica è a “chilometro zero”.

Dopo tutto quanto detto, forse non resta che individuare locuzioni diversificate anziché una soltanto, in modo che siano senza dubbio più adeguate e pertinenti ai valori riferiti e riferibili alle numerose classi di prodotto.

Quindi quali sono i parametri più congrui per aiutare il pubblico nella percezione della qualità; del valore aggiunto, come nelle intenzioni di chi ha coniato il termine “a chilometro 0”?

Supply Chain Management

Questo dibattito ha oggettivamente a che fare con i luoghi di origine di un prodotto, ma non per meri aspetti di georeferenziazione, piuttosto per come vocazione e competenze indisponibili altrove, possono generare esclusive e irripetibili esperienze di produzione e per come l’organizzazione della logistica risulta in grado, o meno, di rendere disponibili le merci in modo rapido ed economico al consumatore.

Km 0 allora non può definire una distanza, un termine temporale, un genere di beni, bensì l’eccellenza nei metodi di lavoro, nell’organizzazione, nella sostenibilità delle proprie attività, nell’etica e soprattutto nella cultura che un’impresa, grande o piccola che sia, trasferisce in quello che produce.

Pescara, 18 settembre 2013.
Stefano Baldi per Hi Sol management solutions.

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